STORIE

Mario, un uomo

Stare in strada: non lo auguro a nessuno.

Non importa se ti ci trovi perché hai perso tutto, perché tua moglie ti ha buttato fuori di casa perché sei un fallito; perché sei scappato da un centro di accoglienza; perché a vendere il tuo corpo non ce la facevi più.Ho paura per  strada, soprattutto di notte. È pieno di ubriachi, di gente violenta. C’è quel ragazzo che sta accucciato e urla, quella donna sepolta sotto i suoi cartoni, che parla da sola. Ho paura non tanto per quello che mi possono fare, ma perché potrei diventare così anch’io. Alla stazione sembra che tutto corra e tutti corrano appresso. A me sembra di essere fermo/a, anzi di galleggiare Dondola tutto ancora, come quando ero in barca e il cherosene bruciava le ferite e mi sembrava che non si sarebbe arrivati mai. Forse è la famosa società liquida che mi fa galleggiare e, a forza di non avere, di non potere, di non sembrare, di non piacere, mi sembra addirittura di non essere.

Giulia, un’operatrice

Stare in strada: non lo auguriamo a nessuno. Li vediamo tutti i giorni all’Help Center: bianchi, neri, vecchi, giovani, tanto giovani, donne, sani, malati, lontani. Parlano chissà che lingua, e l’italiano e il nostro dialetto. Passano tutti qui in stazione. Noi ci siamo perché ci sono loro. Li ascoltiamo e cerchiamo di capire anche quello che non dicono. Non è mica facile presentarsi nella propria miseria, nella propria nudità. Sostenere il disprezzo di chi non sa niente o crede di sapere. Qualcuno viene da noi pieno di rabbia, la “rabbia triste della resa”, come diceva una canzone. Proviamo ad avvicinarci, gli uni verso gli altri, a stringere un primo legame, che serva intanto ad assicurare la presa, perché non si cada più giù. È vero: ascoltiamo, approfondiamo, orientiamo, aiutiamo ad ottenere un documento, una tessera sanitaria, un permesso di soggiorno, una pensione. Ma ci vuole tanto tempo. Questo frustra anche noi, che spesso non abbiamo risposte e vediamo rarefarsi sempre più le opportunità concrete. Però quel primo legame lo abbiamo stretto e da quello partiamo.

Radu, un uomo

Mi piacerebbe tanto saltare la fila, perché ci sto praticamente tutto il giorno. Alla mensa, alle docce, alle lavatrici, al magazzino per prendere i vestiti, al centro medico per prendere le pastiglie. Spesso ho un appuntamento, ma devo mettermi in fila lo stesso. 

D’altra parte, non ho molto altro da fare ancora. Allora mi adatto. Ogni tanto mi stufo, provo a passare: in fondo, ho qualche diritto in più, no? Vengo qui da tanto, oppure sono più forte, più bianco, più vecchio, non mi reggo in piedi, o non ti reggi in piedi tu. 

Non è facile per nessuno e la povertà non spegne ciò che siamo: siamo abituati a tutto, ad accettare tutto, ma non tutti i giorni, tutto il giorno. Qualche volta vorremmo essere altrove, ma non dove vorrebbero gli altri.

Luca, un operatore

Bassa soglia è più o meno sinonimo di servizi essenziali: cibo, igiene, abiti. Primum vivere, dicevano i latini. Qualcuno pensa che si tratti di mera assistenza e velocemente chiama l’assistenza assistenzialismo, scuotendo la testa. Qualcun altro pensa, invece, che assicurare la sopravvivenza sia tutto e che il resto in fondo non si addica a chi vive in strada. 

Capita, in alcune città, che non ci siano altri luoghi oltre l’Help Center dove questi “servizi essenziali” sono disponibili. Anche per questo siamo importanti: 450.000 interventi a bassa soglia… e siamo solo 20! Ma quello che conta davvero è che questi interventi, per noi, sono migliaia di anelli di una catena che si chiama relazione d’aiuto. Relazione… Spiega molto del nostro lavoro, anzi quasi tutto. Un piatto di pasta, un paio di scarpe nuove sono una scusa – buona – per stringere una mano, non solo per darla.

Antonio, un uomo

È buffa la vita. Divido la camera con un ragazzo che ha aspettato mesi per trovare un posto in un centro d’accoglienza, mentre io per sei anni non ho voluto saperne di accettare la proposta dell’Help Center di non dormire in stazione e di venire qui. Ma come faccio a spiegarti? Alla strada mi ero abituato. Qui, se ci pensi, non sono tanto libero: devo rientrare a una certa ora, ad una certa ora devo uscire, non posso bere, mi devo lavare, cambiare; non si litiga, non si urla. Quasi non mi ricordavo cosa volesse dire dormire in un letto, però. E mi fa paura, perché adesso vedo la strada: una salita che non finisce mai. Il mio compagno di stanza parla che non si capisce niente. Mi ha fatto vedere le foto di sua mamma nel telefonino. C’è tutta la sua vita lì. La mia, invece, era finita prima degli smartphone e di foto non ne ho. Della mia vita c’è solo quello che ho qui, in due borsoni, e adesso che me ne rendo conto sono paralizzato. Però dico: Questo ha camminato due anni nel deserto, l’hanno torturato, e invece di dormire studia per l’esame della patente. E io? Forse anche io…

Roberta, un’educatrice

Sono tutte a letto. Il sabato sera non c’è verso: guardiamo Ballando con le stelle fino all’una e loro ballano, scatenate. Lucia, che ha settant’anni, balla da sola il valzer, il tango, mimando con le braccia i movimenti che farebbe col suo cavaliere: si vede che da ragazza le piaceva ballare. Le due ragazze brasiliane – no, non lo voglio dire, che poi gli stereotipi… ma non stanno ferme un secondo. Stasera è venuta per la prima volta anche Silvia: è arrivata dall’Help Center due settimane fa. Dormiva in stazione, cambiava città. I colleghi della rete la conoscevano. È stata tutto il tempo con gli occhi sul telefonino, senza dire una parola.  Però è la prima sera che sta con le altre dopo cena. Questa mattina è stata dal medico, che le ha detto che sta bene: forse si è tranquillizzata. Non voleva saperne della visita e l’abbiamo convinta solo perché la volontaria in servizio civile è rimasta con lei. Hanno la stessa età: due ragazzine, se guardi, con due vite agli antipodi, eppure oggi si sono riconosciute. Sorellanza, la chiamano. O miracolo? Natalia, che è uscita per fumare, mi ha detto che si addormentata subito. Bene. Speriamo.

Sonia, una donna

Stanotte non riesco a dormire. Domani sarà una giornata speciale. Finiamo il corso da OSS e ci danno il diploma. Ci sarà la cerimonia e poi il pranzo tutti insieme. Spero che non si faccia tardi, perché al pomeriggio la signora mi aspetta per andare dal medico e poi devo andare a prendere mia figlia al doposcuola. Lei non sa niente del diploma: le voglio fare una sorpresa. Adesso spero di lavorare di più, in un posto solo. Cercano in una casa di riposo e, con il diploma, mi prederanno forse. E magari riesco a prendere casa da sola, con Sara. Se non fosse stato per il centro, per le operatrici, per le altre mamme, non so come avrei fatto. Senza mia figlia non so come avrei fatto. Quando ci ha buttate fuori di casa credevo di morire. Poi mi hanno detto dell’Help Center e ci sono andata. E adesso di morire non ho proprio più tempo.

Giorgio, uno psicologo

Oggi ho incontrato Ibra e Said. Me li ricordo quando sono venuti all’Help Center la prima volta, con l’indirizzo scritto su un pezzetto di carta. La fatica di capirli e di farmi capire, di spiegare che per un posto bisognava aspettare, che dovevano farsi controllare da un medico, che bisognava mettere a posto i documenti. E poi il corso di italiano, le ore in fila, i pianti perché era tutto difficile, tutto lento, tutto da rifare. E il posto letto, finalmente, e poi l’housing. La gita in campagna e le biciclette. Ho lasciato la mia da Said stamattina, in officina: il cambio è andato e lo dovrà sostituire. Fuori dal centro commerciale c’è Ibra. Non lo so se mi vede, è perso, si è perso. Sta seduto con gli occhi aperti, parla chissà a chi. Said mi ha detto che gli porta da mangiare tutti i giorni, ma non risponde più neanche a lui. Forse sta qui fuori perché sa che dentro c’è il suo amico. Credevamo di avercela fatta con tutti e due, ma ci siamo sbagliati.

Ibra, un ragazzo

Quello dell’Help Center è passato e mi ha guardato. Io l’ho visto, come al cinema: la strada, la gente, le macchine, le case, la luce e il buio li vedo come un lungo piano-sequenza che non finisce mai. Avrei voluto fermarlo, parlargli, spiegargli come sto. Ma come sto davvero?

Said, il mio amico di sempre, viene tutti i giorni a lasciarmi qualcosa da mangiare. Lui lavora, ha trovato casa insieme ad altri ragazzi. Vorrei ringraziarlo, ogni volta che viene. Abbracciarlo, prenderlo in giro per le orecchie a sventola, come facevo prima.

Ma adesso non ce la faccio. Verrà anche il mio giorno. Allora mi alzerò e andrò dove so che mi stanno aspettando…

Essere e non essere

Il tempo, il tempo è così strano: abbiamo fretta di risolvere la vita degli altri, perché è giusto, perché è etico, perché è umano. Risultati, numeri, soddisfazioni: Silvia, Said, mille altri. E poi Ibra fermo qui a riportarci a terra. A ricordarci quello che non siamo: onnipotenti. Siamo quello che dice il nostro nome, soltanto quello: il posto che aiuta. Centinaia di migliaia di volte, niente più di questo.